Canova, Orfeo ed Euridice |
Buona sera a tutti.
Forse non tutti sanno che nel tempo libero (quale? buona domanda) mi dedico alla scrittura creativa.
E su imbeccata di una mia amica, la blogger imagy-mary che saluto e ringrazio, ho scritto un racconto che vorrei condividere con voi, nell'ambito di una piccola "sfida letteraria" il cui tema era:
"Scegli un personaggio (un eroe, un Dio, un semi-dio, insomma chi volete) della mitologia o letteratura greca antica e sviluppa una storia che lo riguardi (non ci sono limiti di ambientazione: dalla Grecia antica ad un mondo post apocalittico); l'unico vincolo è di svilupparne la psicologia, andando contro alla tradizione greca i cui personaggi avevano una caratterizzazione minima."
"Scegli un personaggio (un eroe, un Dio, un semi-dio, insomma chi volete) della mitologia o letteratura greca antica e sviluppa una storia che lo riguardi (non ci sono limiti di ambientazione: dalla Grecia antica ad un mondo post apocalittico); l'unico vincolo è di svilupparne la psicologia, andando contro alla tradizione greca i cui personaggi avevano una caratterizzazione minima."
Ed ecco il risultato, liberamente ispirato alla tragedia di Orfeo. Buon divertimento, commento libero.
Orfeo ed Euridice
di Mattia Corsini
di Mattia Corsini
<<Madre, mi fa tanto
male...>> la piccola Marie sospirava senza sosta nel delirio febbrile,
gli occhi grigi appannati da lacrime e sudore. Le coperte la avvolgevano come
un sudario, e nello sguardo di Elsa c’era tutta la preoccupazione che quella
presto non sarebbe più stata una semplice similitudine.
Difterite gioviana, male tremendo e quasi incurabile. Antidoti?
Vaccini? L’intervento diretto di Esculapio era una speranza migliore per i
malati.
L’uomo, in fuga dalla sua terra
morente, aveva conquistato larga parte del Sistema Solare e aveva addirittura
colonizzato Europa, quarto satellite di Giove, solo per rendersi conto che il
pianetino sarebbe probabilmente diventato l’ennesimo epitaffio tombale alla sua
follia. Temperature vicine allo zero assoluto, germi ancestrali scatenati,
pirati spaziali... Che altro serviva per confezionare un disastro?
Elsa si sforzò di sorridere alla
figlia: <<Abbi pazienza Marie, presto arriveranno gli Argonauti con il
vaccino, e magari ti porteranno un po’ di quei dolcetti di Venere che ti
piacciono tanto...>>
Un sorriso si allargò sul volto
della piccola, al pensiero di quel cioccolato speziato e dolcissimo, e
probabilmente la sua ultima sensazione fu di sentirlo sciogliere in bocca.
Quando spirò, era forse arrivata alla parte in cui si leccava le dita una dopo
l’altra.
<<Che bello...Ti voglio
bene.>> Elsa udì mentre le ginocchia le cedevano e crollava urlando sul
capezzale della piccola.
***
La navetta spaziale AR222GO7, classe “Lost ship”, matricola
sconosciuta, Argo per gli amici,
stava attraccando in silenzio allo spazioporto di Nuova Lemno. Mani esperte
stavano sfiorando i comandi di atterraggio, e solo un lieve tremore tradiva ciò
che poteva essere successo solo pochi secondi prima.
Orfeo sudava copiosamente. Non si
sarebbe mai abituato del tutto agli agguati della Federazione Terrestre,
pensava. Tuttavia c’era qualcosa, nella sensazione del dopo, qualcosa come un sapore, un retrogusto sulle labbra, che
sempre gli dipingeva un sorriso sardonico in volto.
Anche oggi era sfuggito a forze
preponderanti. Anche oggi aveva trovato la rotta nei vorticosi campi di
asteroidi gioviani dove il pilota mediocre trova solo una morte rapida. Anche
oggi era riuscito nell’impossibile. Così gli era stato promesso e così fu. Si
accarezzò per un istante la cicatrice che gli solcava naso e gote, mentre un
unico pensiero lo colmava:
“Non oggi, Ade!”
“Non oggi, Ade!”
Rivolse poi uno sguardo d’intesa
all’unica persona con cui avrebbe diviso la gloria:
<<Menade, procedura di attracco. Motori al minimo e sequenza diagnostica avviata. La nave è tua.>>
<<Menade, procedura di attracco. Motori al minimo e sequenza diagnostica avviata. La nave è tua.>>
La mutante venusiana non se lo
fece ripetere. Sorrise maliziosamente al suo comandante, e afferrò la cloche
con le sue dita insolitamente lunghe. Gli occhi di Orfeo indugiarono un attimo
di troppo sulla scollatura della sua tuta da lavoro, poi l’uomo si sollevò e si
diresse con passo deciso verso il portellone posteriore, su cui campeggiava,
dorato, il simbolo di una cetra stilizzata.
<<Liberare!>> ordinò
l’uomo, afferrando un mantello termostatico e indossando uno scafandro
climatizzato.
Uno sbuffo di vapore e un rumore
sordo, e lo sportello si aprì sulla desolazione spettrale di Europa. Ogni volta
che tornava era peggio. Cataste, cataste di corpi rigidi e senza vita ovunque.
Inutilmente erano stati imballati e marchiati con il logo della Croce Rossa
Interplanetaria, nessuno li avrebbe mai riportati a casa.
“Contemplerete le stelle per
l’eternità.” Pensò Orfeo con una punta d’invidia, scendendo fra le cataste come
il monarca infernale marciava tra le ombre, sorridendo in silenzio.
L’unica sagoma verticale attirò
in breve la sua vista. L’uomo si diresse senza indugio verso di lei, senza
neppure trasalire ogni volta che pestava e sbriciolava una mano congelata che
sbucava dal ghiaccio.
“Bene, una testimone basta. E se
ho contato bene i corpi freschi, non avrà problemi a pagare.”
La sagoma indossava una semplice tuta
termica, e ciondolava vistosamente. Principi di assideramento, pensò l’uomo. “Questa
scriteriata è uscita senza scafandro. Facciamo presto”.
La sagoma si mosse appena,
rivelando una rudimentale pistola nella mano destra, che gli fu puntata al
volto, non senza un evidente tremore della canna.
“Modello HK 177 antigelo. Robetta.” Orfeo sogghignò.
Una voce metallica lo raggiunse
via radio:
<<Tu sei arrivato tardi e mia figlia è morta. Non ho più bisogno della tua merda chimica. Torna da dove sei venuto o muori qui. A me non importa più di nulla.>>
<<Tu sei arrivato tardi e mia figlia è morta. Non ho più bisogno della tua merda chimica. Torna da dove sei venuto o muori qui. A me non importa più di nulla.>>
“Sparami idiota, spara!” Pensò per un istante l’uomo,
mettendo mano ad una delle sue tasche ed estraendone una fiala pressurizzata.
Poi rispose:
<<Ascolta, terraformante. Sono
sicuro che conosci i metodi della Federazione per garantire la quarantena qui.
Nondimeno, sono arrivato. E se non posi quel ferro immediatamente, sarà troppo
tardi per tutti e tre. Posalo e vivi. Vivi con tua figlia. Sparami e muori. La
scelta è tua.>>
Il tremore della donna parve
aumentare, poi il dolore troppo fresco e le lunghe ore di attesa al gelo ebbero
la meglio. Orfeo la vide crollare come un pupazzo con i fili spezzati, nella
neve, fra turbini di ghiaccio e vento.
***
Non gli fu difficile ripercorrere
i passi della donna fino a casa sua. Il peso era notevole, ma non era nulla per
il suo corpo semimeccanizzato. Nè gli fu difficile trovare la casa. La porta
era ancora semiaperta, le luci accese. Entrò e si chiuse la porta alle spalle.
Dopo aver adagiato la donna sul suo letto, la guardò in viso:
“Occhi rossi di lacrime fresche. Congelamento
oculare parziale. Nessun danno permanente.” Registrò mentalmente. “Bene”.
La piccola era lì dove era
spirata, e stava ancora sorridendo. Orfeo si tolse il guanto dell’unica mano
biologica che gli restava, e ne sfiorò il sudore ormai congelato, i lineamenti
cristallizzati in una maschera grottesca di gioia e morte. Di fronte ai suoi
occhi, un altro volto femminile prese il posto di quello della piccola per un
istante, e Orfeo si scoprì ad ansimare. Ma fu solo un attimo.
“Tu sei l’ultima. Farò ciò che
devo. Per te, Euridice!” pensò calando su di lei come un’ombra scura, la fiala
stretta in pugno, lo sguardo gelido come quello dei corpi là fuori, forse di
più...
***
Trascorsero ore, che forse erano
giorni. Poi un peso familiare sul petto destò Elsa dal suo sonno. La sua
piccola era lì, sdraiata su di lei, la manina stretta nella sua e il volto
seminascosto nelle pieghe del suo mantello, come un cucciolo. Dormiva, come
dormono i bambini, con un respiro appena percettibile, quasi un ronzio. E le
sue labbra erano sporche di cioccolato!
Le lacrime colmarono lo sguardo
della madre, mentre affondava le mani nei capelli della piccola, accarezzandone
avidamente il capo, come se null’altro di lì al Sole avesse importanza.
<<Marie! Piccola! Cucciola!
Sei tu! Sei viva! Oh, sia lodato Zeus Olimpico! E’ un miracolo!>>
singhiozzò Elsa traendo il corpicino al petto, mentre la piccola apriva
d’improvviso gli occhi, come destata da un sogno.
Marie guardò la madre per un
istante forse troppo lungo.
Poi sorrise tristemente, come Orfeo
ore prima, tra i corpi.
<<Che bello...Ti voglio bene.>>
<<Che bello...Ti voglio bene.>>
Orfeo e la sua ricompensa erano
spariti.
***
La porta della sua cabina era
chiusa da ore, la luce del tavolo da lavoro accesa, e Europa era a centinaia di
migliaia di chilometri. Eppure, il suo gelo, quello era ancora lì. Penetrato
nelle membra meccaniche di Orfeo senza apparente rimedio. Ma soprattutto
penetrato nel suo cuore, molti anni prima.
L’uomo lavorava alla sua mano
sinistra senza sosta. Presto sarebbe tornato su Plutone, e tutto doveva essere
perfetto. Erano passati anni dall’ultima volta che lei gli aveva sorriso.
Troppi anni. Lui stesso non ricordava più quanti. Anni passati fra attimi di
gloria fugace, ardente speranza e rabbiose delusioni. Braccato come un cane
bastardo. E solo.
Con un sospiro poggiò finalmente
il cacciavite idraulico sul tavolo e rimirò il risultato. Indice di
coordinazione interneurale, 99.99% si leggeva sul monitor sulla parete.
“Bene.”
L’uomo si alzò, nudo, registrando mentalmente il cigolio del ginocchio destro. Si fece l’appunto mentale di verificare l’alloggiamento della rotula in titanio prima dell’atterraggio, poi sospirò guardando il letto. Menade era lì, dolcemente distesa tra le coltri stropicciate. Era stata così bella... Una pelle levigata come il topazio, salvo sulle mani, l’unica parte a tradire la lunga e operosa vita vissuta al suo fianco. Ma quella pelle che poche ore prima ribolliva di desiderio per lui, ora appariva fragile e sottile, una carta velina di colore livido e verdognolo, malsano, disgustoso a vedersi. Presto avrebbe persino cominciato a puzzare. Orfeo si portò una salvietta profumata al naso, il viso contorto in una smorfia di disgusto.
<<Presto mi occuperò anche di te, vecchia amica. Non volermene, ma...Comprendi che eri di troppo vero?>> sussurrò avvicinandosi a lei e sfiorandole la fronte. Poi distolse lo sguardo. Il vero problema erano quei magnifici occhi verde acceso cui non era mai riuscito a resistere... Occhi senza palpebre che lo fissavano con vuoto rimprovero.
L’uomo si alzò, nudo, registrando mentalmente il cigolio del ginocchio destro. Si fece l’appunto mentale di verificare l’alloggiamento della rotula in titanio prima dell’atterraggio, poi sospirò guardando il letto. Menade era lì, dolcemente distesa tra le coltri stropicciate. Era stata così bella... Una pelle levigata come il topazio, salvo sulle mani, l’unica parte a tradire la lunga e operosa vita vissuta al suo fianco. Ma quella pelle che poche ore prima ribolliva di desiderio per lui, ora appariva fragile e sottile, una carta velina di colore livido e verdognolo, malsano, disgustoso a vedersi. Presto avrebbe persino cominciato a puzzare. Orfeo si portò una salvietta profumata al naso, il viso contorto in una smorfia di disgusto.
<<Presto mi occuperò anche di te, vecchia amica. Non volermene, ma...Comprendi che eri di troppo vero?>> sussurrò avvicinandosi a lei e sfiorandole la fronte. Poi distolse lo sguardo. Il vero problema erano quei magnifici occhi verde acceso cui non era mai riuscito a resistere... Occhi senza palpebre che lo fissavano con vuoto rimprovero.
Era stato costretto a bendarla
dopo averla anestetizzata, altrimenti non sarebbe mai riuscito a romperle il
collo nel sonno col suo arto meccanico. Ma a tutto c’è rimedio. Lui trovava sempre il rimedio a tutto. Che fosse una
rotta impossibile, un posto di blocco planetario a prova di ladro o un
combattimento disperato, la soluzione gli si palesava sempre alla fine. Alcuni
là fuori amavano ripetere che egli dovesse avere un computer al posto del
cervello, molti di più che lo avesse al posto del cuore.
Pensieri confusi attraversavano
la sua mente, mentre ancora nudo recava il corpo di Menade al portello
pressurizzato, sempre avvolta nelle stesse lenzuola dove l’aveva posseduta. Poi
la poggiò nella piccola alcova metallica e chiuse la porta stagna.
“Ecco, cara amica. Ora non
appartieni più nè a me nè a nessun altro. Ora sei davvero libera. Possano le
stelle accoglierti nel tuo lungo viaggio verso la luce o verso le tenebre.”
Pensò l’uomo azionando con forza una grossa leva rossa sulla parete. Il corpo
di Menade venne sbalzato fuori dal risucchio in un istante.
“Il tuo compito qui è finito. Addio.”
In silenzio Orfeo tornò al tavolo
da lavoro e in silenzio riprese le riparazioni. Ancora quel dannato
ginocchio... La vecchia ferraglia cigolava più del solito, e gli sembrava il
pianto di un bimbo o il guaito di un cucciolo ferito.
Odioso.
***
Una voce metallica lo risvegliò
dal pesante sonno indotto dalla droga analgesica che assumeva. Chiunque avesse
una percentuale di meccanizzazione superiore al 51% non poteva farne a meno per
contrastare la sindrome dell’arto fantasma, ma questo non lo rendeva meno
fastidioso per lui.
<<Superata l’orbita di
Cerbero, inizio procedura di attracco automatico su Plutone, località Cava di
Ammoudia. Allacciare le cinture, possibilità di turbolenze 76.5%...>>
Orfeo ignorò la voce e, invece di
sedersi in cabina, indossò con cura il suo abito migliore e si rasò
perfettamente baffi e barba, massaggiandosi poi le gote con una lozione
emolliente. Si ricordava bene la speziale che gliel’aveva venduta. Se fosse
stato possibile non avrebbe voluto spararle, ma era malata e non poteva darle
il vaccino. Non a lei. Non era nell’elenco. Ade non ammetteva eccezioni.
Si rimirò nello specchio
compiaciuto, ignorando i sobbalzi della nave. Uno dei vantaggi di avere piedi
meccanici magnetizzati, pensò l’uomo. Una nuova luce di speranza era accesa in
fondo ai suoi occhi, mentre si specchiava verificando ogni minimo dettaglio,
come uno sposo novello.
“Eccomi Euridice... Ora sono
esattamente come mi ricordi. Ora saremo di nuovo una cosa sola, e tutto sarà
come prima. Nessuno ce lo impedirà, te lo giuro sulla mia vita.”
***
Una porta pressurizzata fu aperta tra sbuffi di vapore, e Orfeo fece il suo ingresso nel laboratorio
segreto del dottor Ade. Ricordava bene l’umiliazione che si era autoinflitto al
suo unico altro ingresso, un’eternità prima. Aveva strisciato. Per Ares, aveva pregato.
Ora non più. Aveva mantenuto il
patto alla perfezione.
Un tempo lontano era stato Orfeo
il vile, Orfeo il vedovo, Orfeo il prostrato.
Ora entrava Orfeo l’eroe, Orfeo
l’inafferrabile, Orfeo il seduttore, Orfeo il dispensatore di miracoli. Orfeo il
figlio di Zeus.
Orgoglio, bramosia e una gioia
feroce erano dipinti nei suoi occhi, mentre il vapore spariva, rivelando il
complesso circolare di loculi pieni di liquido refrigerante che ricordava bene.
Figure umanoidi diafane e nude giacevano in sospensione all’interno, immobili.
Al centro del cerchio, di schiena, intento ai comandi di una consolle, ecco
lui, Ade, il medico dei miracoli.
<<Ti stavo aspettando,
figlio mio. Da 23 minuti per l’esattezza.>> disse l’uomo voltandosi. Un
camice grigio scuro ne delineava la figura imponente, troppo per un uomo di
scienza. Occhiali con montatura d’osso spiccavano sulla sua fronte corrugata
dall’età, mentre i pochi capelli, neri come l’Averno, erano in piega perfetta.
Non una singola protesi meccanica ne deturpava la figura, che emanava come
allora la grazia e la maestà di un’intelligenza superiore, forse unica nel suo
genere.
Le sue lunghe dita bianche
riposero gli occhiali nel taschino, su cui campeggiava una targhetta dorata
finemente incisa su cui si leggeva “Dott.
Ade”, e sorrideva con sincerità mentre con passo leggero fece per
avvicinarsi a braccia aperte al nuovo arrivato. Ma Orfeo non era dell’idea, e
lo bloccò con un gesto imperioso della mano.
<<Poche storie, dottore.
Non voglio convenevoli ipocriti, ho atteso troppo questo momento. Ha avuto
conferma dei miei risultati?>>
<<Dritto al punto come un
proiettile, vero Orfeo?>> l’uomo sorrise di più, sfregandosi le mani, per
nulla stupito della reazione, e indicò un monitor olografico alla sua destra,
in cui, su una riproduzione del Sistema Solare conosciuto, campeggiavano un
centinaio di lucine rosse fisse. L’ultima, intermittente, era su Europa.
<<Ma certo che l’ho avuta. >> Rispose <<Cento bersagli, cento combattimenti, cento astuzie, cento successi, e nemmeno un graffio sulla carlinga della mia Argo. La nanomacchina che hai iniettato mi hai regalato cento esperimenti riusciti su cento. Cento magnifici tecnosimbionti eterni in più. Hai lavorato bene, figlio mio... >>
<<Ma certo che l’ho avuta. >> Rispose <<Cento bersagli, cento combattimenti, cento astuzie, cento successi, e nemmeno un graffio sulla carlinga della mia Argo. La nanomacchina che hai iniettato mi hai regalato cento esperimenti riusciti su cento. Cento magnifici tecnosimbionti eterni in più. Hai lavorato bene, figlio mio... >>
<<Esperimenti?
Tecnosimbionti? Di che diavolo sta parlando? Io ho portato vaccini, chiaro? Vaccini!>> ruggì Orfeo stringendo
il pugno meccanico. Il dottore non si scompose affatto, e iniziò a muoversi
intorno a lui, osservando distrattamente i loculi, con le mani incrociate
dietro alla schiena.
<<Suvvia, Orfeo... La tua divina saggezza non ti consente nemmeno
di capire una cosa così semplice? Nessun vaccino conosciuto dall’uomo può
sconfiggere la morte e neppure io posso... Ma se il Dio Olimpico che l’uomo
venera lo ha abbandonato alla malattia, alla solitudine e alla morte, e se
persino i superstiti sulla Terra preferiscono chiudere gli occhi e ignorare i
fratelli in difficoltà, un uomo di scienza come me è moralmente obbligato ad intervenire per salvare
questa stirpe abbandonata dal suo stesso creatore. Io amo l’uomo. Lo adoro
nella sua intenzionale imperfezione. E intendo fare sì che questa povera
creatura imperfetta ottenga finalmente la pace che merita. E così è. Nessuno di
coloro che hai salvato conoscerà mai più fame, freddo, malattia, dolore nè
sofferenza. Tramite me, tu gli hai donato i Campi Elisi eterni. Orfeo l’angelo
misericordioso, non suona bene al tuo orgoglio, mio caro?>>
Orfeo sudava copiosamente ora. Le
singolari parole del dottore lo colpivano nell’inconscio, ma faticava a capirne
il senso profondo. Scosse la testa e riprese vigore. Contava solo lei. Presto sarebbe stato con lei,
dall’altra parte della galassia rispetto a quel luogo maledetto.
<<Al Tartaro le tue ciance,
demonio! Sono vivi e tanto mi basta. Ora
adempi alla parola data e ridammela! Ridammi la mia Euridice!>> urlò.
<<Ma certo, la mia parola è
sacra dopo tutto...>> rispose
il dottore sfiorando un pulsante sulla consolle centrale. Orfeo spalancò gli occhi mentre riccioli rosso
brillante e il viso di una figura anche troppo familiare uscivano da una porta
stagna apertasi sul pavimento, mentre il montacarichi sottostante la elevava in
tutto il suo splendore ultraterreno. Un click meccanico salutò l’apparizione di
Euridice, della sua Euridice.
Era bella come il giorno della
sua morte, o forse persino di più. Indossava ancora la candida tunica nuziale
che avevano scelto insieme, e portava al dito il suo anello, unico nel suo genere.
Tre brillanti trovati sugli anelli di Saturno anni prima. Un sorriso radioso illuminava un volto
pallido come il latte. Quegli occhi fissi su di lui, azzurri come Mercurio
stesso, gli toglievano il respiro. E quelle fossette intorno alle guance
arrossate da un’evidente emozione... Sì, era lei, non ci potevano essere dubbi.
Solo lei aveva il volto dell’Amore.
Orfeo sentì ira e orgoglio
sciogliersi, come si sciolsero le sue ginocchia. Con un sordo rumore metallico
cadde in ginocchio sul pavimento del laboratorio. Tutto ciò che avrebbe voluto
dirle, tutti i discorsi che si era preparato non contavano più nulla, anzi, non
erano mai esistiti.
Balbettando una silenziosa
preghiera di ringraziamento, pianse copiose lacrime quando la fanciulla
pronunciò finalmente il suo nome.
<<Orfeo, dolce amore mio...>>
disse. <<Sei tornato per me.>>
Orfeo, mezzo accecato dal pianto,
riuscì a malapena a fare un cenno di assenso col capo. La gola era chiusa dal
profondo, non poteva parlare. Parlò lei per lui.
<<Che bello...Ti voglio
bene.>> disse.
Il suo sorriso lo portò nei Campi
Elisi, e gli diede la forza di alzarsi e incamminarsi verso di lei. Era come un
pellegrino estasiato di fronte all’apparizione di Afrodite. E neppure si avvide
della sagoma femminile appena entrata dalla porta alle sue spalle, con una
pistola stretta in pugno. Due occhi grandi e verdi senza palpebre lo fissavano,
privi di qualunque emozione.
Un preciso colpo alla giuntura
alla base del collo di Orfeo partì senza alcun preavviso. Bang!
E la sua testa, staccatasi
innaturalmente, come quella di una bambola, cadde rotolando ai piedi di
Euridice. Quando si fermò, rivolta verso la sua assassina, mostrava ancora
l’estasi di poco prima. Liquido lubrificante e filamenti elettrici si sparsero
ovunque, creando a terra una lugubre pozza, in cui Orfeo si vide riflesso per
un attimo. Dall’orbita vuota del suo occhio destro, rotolato poco più in là,
spuntava solo un collegamento elettrico bruciato, e dal foro colava un liquido
verdognolo dall’odore acre e disgustoso.
Riuscì comunque a mormorare
un’ultima parola, in un rantolo sbigottito da orrore e dolore:
<<Menade...>>
***
Il dottore completò il lavoro con
la consueta grazia, velocità e perfezione esecutiva, incredibili per un essere completamente
biologico. Terminata l’operazione, si sedette e attese pazientemente, con
un’espressione preoccupata che avrebbe ingannato tutte le madri preoccupate del
Sistema Solare.
Orfeo si riebbe poco dopo. Si
scoprì illeso, su una candida barella al centro del laboratorio, a fianco della
quale, in una capsula pressurizzata, la sua Euridice giaceva senza vita, bella
come il giorno della sua morte, o forse persino di più.
<<Ho avuto un
mancamento...>> il giovane si massaggiò le tempie vincendo un lieve senso
di vertigine...A poca distanza, seduto su una poltrona, vide un uomo. Un camice
grigio scuro ne delineava la figura imponente, troppo per un uomo di scienza.
Occhiali con montatura d’osso spiccavano sulla sua fronte corrugata dall’età,
mentre i pochi capelli, neri come l’Averno, erano in piega perfetta. Non una
singola protesi meccanica ne deturpava la figura, che emanava la grazia e la
maestà di un’intelligenza superiore, forse unica nel suo genere.
Le sue lunghe dita bianche
riposero gli occhiali nel taschino, su cui campeggiava una targhetta dorata
finemente incisa su cui si leggeva “Dott.
Ade”, e sorrideva con sincerità mentre
con passo leggero si alzava replicando con sicurezza:
<<Sarà stata la fatica del
viaggio.>>
<<Ma hai avuto successo.>> Proseguì affabile l’uomo. <<Sei riuscito dove molti hanno fallito. Sei arrivato da me, l’unico uomo di scienza capace di ridare la vita a chi non la possiede più. Ma non regalo questo prodigio a chiunque, e soprattutto non gratuitamente. Cosa sei disposto a fare per riaverla fra le braccia?>>
<<Ma hai avuto successo.>> Proseguì affabile l’uomo. <<Sei riuscito dove molti hanno fallito. Sei arrivato da me, l’unico uomo di scienza capace di ridare la vita a chi non la possiede più. Ma non regalo questo prodigio a chiunque, e soprattutto non gratuitamente. Cosa sei disposto a fare per riaverla fra le braccia?>>
Orfeo non aveva dubbi. Scattò in
piedi, con lo sguardo ardente fisso sul medico:
<<Tutto.>>
<<Eccellente!>>
rispose lo scienziato, mettendo mano ad una valigia pressurizzata ai suoi
piedi, che aprì con un click secco. <<Queste cento fiale sono un’antitossina sperimentale di mia invenzione. Là
fuori, centinaia di migliaia di uomini soffrono e muoiono per le più svariate
malattie ogni giorno. Ma questa, questa
è la cura per tutti loro. Ed è opera mia! Sfortunatamente, ho due problemi. Primo,
non posso muovermi di qui, o il mio laboratorio cesserebbe di funzionare e
perderei i miei pazienti e tutti i risultati delle mie ricerche. Secondo, non
ho medicina sufficiente per tutti, quindi ho dovuto fare una scelta casuale fra
i potenziali pazienti.>>
Il dottor Ade gli porse un
piccolo olo-registratore, su cui campeggiava una riproduzione olografica del
Sistema Solare. Qua e là, Orfeo distinse alcune piccoli luci blu. Potevano
essere un centinaio. Il dottore proseguì:
<<Viaggerai sulla nave che
ti metterò a disposizione, la Argo. La bagnarola con cui sei venuto non sarebbe
mai in grado di sostenere il viaggio nè di affrontare una battaglia. Dovrai
superare rotte ai limiti del possibile, e combattere pirati e posti di blocco,
per recare l’antitossina a destinazione, e inocularla negli obiettivi, vivi o morti che siano. Tale è il potere
del mio ritrovato. Solo allora potrai
fare ritorno qui, e al tuo ritorno avrai fama, ricchezza, e soprattutto riavrai
lei. Te lo prometto.>>
<<Ma come posso, da solo...
Non saprei nemmeno riparare un guasto... E poi non sono un pilota così
abile!>>
<<Ti sottovaluti
abbondantemente, figliolo. Andrai benissimo, ti dico. E comunque non sarai
solo. Metterò a tua disposizione il mio meccanico migliore! Vieni avanti, Menade!>>
Detto ciò, dall’ingresso fece la
sua comparsa una strana donna. Orfeo ne riconobbe immediatamente i tratti
mutanti, era probabilmente una venusiana. Aveva una pelle levigata come il
topazio, salvo sulle mani, l’unica parte a tradire la lunga e operosa vita che
doveva aver vissuto. Aveva due magnifici occhi verde acceso che gli strapparono
un sussulto... Occhi senza palpebre che lo fissavano con simpatia e, avrebbe
giurato, una punta di desiderio. Indossava una sobria tuta da lavoro e una
cintura di cuoio con fondina pendeva ai suoi fianchi con naturalezza. La
ragazza fece una riverenza e rimase in silenzio presso la porta guardandolo
fisso, come ad attendere un cenno di comando.
<<Allora figliolo, che ne
pensi della mia offerta?>> Chiese il dottore con aria sorniona.
Orfeo soppesò un istante più del
necessario la situazione, fissando il corpo esanime della sua bella. I chip
tecnosimbionti nel suo encefalo organico avevano già elaborato la risposta da
tempo, e nemmeno la scollatura di Menade poteva in quel momento interferire con
la determinazione che stava venendo implementata in lui in tempo reale, ma la
sua programmazione lo rendeva perfettamente in grado di replicare i tempi di
reazione umani. Non che ne fosse consapevole, beninteso.
Il suo ginocchio destro emise un
lungo cigolio.
<<Accetto.>> disse.
Ade sorrise.
Orfeo, Euridice ed Ermes |
PS. Sabato e domenica parteciperò al corso UIPASC per preparatori atletici per sport da combattimento, che si terrà a Milano i prossimi due fine settimana. Lunedì 9 febbraio, invece, sarò a Roma per la riunione operativa di Riscossa Italiana. Vi terrò informati sulle novità.
Ci vediamo in mischia.
Mattia C
Certo che non c'è "fantascienza" che tenga: è una storia talmente triste e sofferta che è ben arduo gestir l'empatia.
RispondiEliminaPer colpa tua mi son visto lo spettacolo teatrale di César Brie, a San Valentino... rigorosamente con un un amico, come vuole la tradizione orfica. :-)
Piangevano tutti... attori compresi.
D'altronde, come non c'è denaro senza debito, gh'é mia amur sénza dulur.
(Gh'è mia sàbèt sénza su, gh'è mia dôna sénza dulur, gh'è mia tusa sénza amur)
Grazie per averla letta egregio bazaar! :)
Eliminama a parte la tristezza, ti é piaciuta? commenti? ^^
Mi è piaciuta sì: dal punto di vista allegorico non mi esprimo. Troppi riferimenti e troppe letture per una risposta a freddo.
RispondiEliminaHo trovato creativo e originale mischiare mito e fantascienza.
L'unico appunto dal lato stilistico è che troverei almeno un paio di sinonimi dell'aggettivo "copioso" :-)
Mi è piaciuto molto.
Segnato copiosamente :D
EliminaBeh, detto da te é un grosso complimento, grazie ^^